Così sono stata adottata da mio figlio
Piuttosto che un lavoro fotografico, esemplare di una qualche declinazione autoriale, oggi vi propongo una storia. La storia di un legame, che sebbene non possa dirsi familiare perché i single, per la legge italiana, non hanno la possibilità di adottare un bambino, è una storia che vale per tutti quei nuclei familiari che hanno fatto questa scelta.
Chi racconta questa storia è Francesca Fornario, giornalista e autrice satirica, che collabora con La7, Rai3, Sky, il Fatto Quotidiano, Il Manifesto e Micromega: prendetevi 10 minuti per leggerla, ne vale la pena.
Attilio Lauria
“Questa è una storia vera basata su un racconto di fantascienza. La storia di come sono stata adottata da mio figlio, una tiepida mattina di quasi due anni fa. Tiepida per lui, che arrivava dal confine con la Russia, e quando ho tentato di infilargli il pigiama taglia nove anni, che gli stava sei volte, ha proferito con solennità la sua prima frase in russoliano: “Niet pigiama!”. Sospettavo che il pigiama costituisse un bisogno indotto dal capitalismo.“Stiamo cercando una famiglia che possa accogliere un bambino”, mi aveva spiegato una coppia di amici: “Quattro mesi all’anno”. “Una famiglia?”. “Sì, anche un single”. Una falla nel sistema-Giovanardi. Era appena uscito il mio romanzo, giravo per il Paese, mi sentivo fortunata. Era il momento di essere generosa: “Se non trovate nessun altro posso occuparmene io, però sono da sola…”.
La psicologa aveva riso: “In Russia i padri sono una rarità”. Appuntarselo: ogni volta che si evoca la famiglia tradizionale, un antropologo muore. “E ho un mucchio di libri per bambini”. Altra risata: “Non aspettarti un bambino, aspettati un alieno”. Era tutto quello che avrei avuto bisogno di sapere. Qualche giorno dopo, attendevo a Malpensa l’atterraggio dell’Ufo, armata di bolle di sapone e aspettative errate. Rimettere in circolo la fortuna: era questo che avevo in programma. Ma sarò in grado? Capirò di cosa avrà bisogno l’extraterrestre?
Ho attinto alla mia formazione pedagogica. I primi giorni parlavamo a gesti come in E.T. Indicavo gli oggetti in casa. “Libro”, “frigorifero”. È tra i pochi della sua generazione a sapere cosa vuol dire cd. “Mio profumino è Cccp (pronunciato ‘ess- ess-ess-arr’)”. La prima di tre espressioni che non ho osato correggere, tanto mi piacevano. “Mio colore profumino è nero”. La seconda era “granditesco”, detto di cose di media grandezza che a lui sembrano gigantesche: “Mamma, guarda, tua mano granditesca, mia piccola”. La terza era Mamma. “Chiamano così le istitutrici dell’orfanotrofio”, mi avevano avvisato. Io, però, mi sentivo come uno di quei gatti delle favole, che si ritrovano accanto l’uovo caduto dal nido. Il guscio si rompe, il passerotto fa capolino ed esclama: “Mamma!”. Il gatto, pur non avendo le ali, non ha altra scelta che insegnargli a volare. “Mamma, guarda!”. “Smotri!”. Voleva che lo guardassi, costantemente. Guardare insieme le cose, che sono come le persone: si percepiscono solo nella luce. Un bambino che non viene mai guardato scompare, come una cosa al buio. Diventa invisibile a se stesso. Non parla, non mangia, non dorme, si comporta come se non esistesse. Imparava in fretta, e anche io. Tipo: che l’espressione “la scoperta dell’acqua calda” è stupida, perché per qualcuno è una scoperta davvero. La prima volta che ha visto la vasca da bagno non voleva entrare. Ora non vuole più uscire. È stata una rivelazione anche per me. La lavatrice, i libri, i Simpson. Mi sono meravigliata di come le cose avessero smesso di meravigliarmi. Di quanto fossi assuefatta allo stupore, tanto da smettere di stupirmi.
Il giorno in cui mi ha adottato indicava le cose e le chiamava per nome in russo. Voleva insegnarmi la sua lingua. Si batteva la mano sul petto. Stampata sulla felpa c’era la scritta “SIX”. “Mamma, guarda, syn!”. “Sì, sei. In inglese: six”. Scuote la testa. Insiste, punta il dito sulla scritta: “No mamma, io syn!”. Lo guardo interrogativa. Afferra il telefono, scandisce: “Syn! Syn! Syn!”. La voce metallica traduce: “Figlio! Figlio! Figlio!”.
Non c’era modo di arrivare preparata. I manuali che non ho fatto in tempo a leggere mi sarebbero serviti come le indicazioni della hostess che ti mostra come allacciare la maschera quando l’aereo perde quota. Io non aspettavo un figlio, aspettavo un cucciolo di alieno. E non immaginavo di reagire così. Pensandoci bene, non mi ero affatto preoccupata di come avrei reagito: pensavo a come avrebbe reagito lui, il piccolo naufrago extraterrestre. Chissà se sui manuali c’era scritto di prepararsi alle endorfine, al batticuore, all’euforia. Come quando ci si innamora. Prepararsi a soffrire la mancanza, al corrersi incontro quando uno dei due atterra. Aspettare ogni giorno la telefonata su Skype, i messaggi su Whatsapp: “Mama, ti amo unsako”. Non saper come spiegarlo a quelli che commentano “come sei stata brava!”. “Ehhh?!”. È come ammirare qualcuno perché si è preso una cotta.
Chissà poi se sui manuali c’era scritto come convincerlo a dormire. Prendeva sonno sempre più tardi, anche se ero lì a coccolarlo. Ci ho messo del tempo a capire perché. Perché ero lì a coccolarlo! Ancora oggi, finché resto accanto al letto, resiste alla stanchezza trattenendomi per le mani per non farmi scappare. “Una Pimpa… due Pimpe… ti prego… acqua… pipì… Pimpa…”.
Non scappo, bambino. Guardami: sono stracolma. Ho avuto tantissimo. Non sapevo più dove metterlo, per questo sei qui. Ora tocca a te. E un giorno, ti prometto, ti incazzerai. Perché la vita è stata ingiusta con te. Ti incazzerai anche con me. Non scapperò nemmeno allora, perché avrai ragione tu. Non vedo l’ora che arrivi quel giorno. Il giorno in cui saprai di poterti incazzare con qualcuno che ami senza rischiare di perderlo. Quel giorno sarai sicuro di avere qualcosa anche tu, e la rimetterai in circolo. Così è la vita, figlio mio, per quel che ci ho capito. Dare quel che si riceve. Chi molto, chi poco.
Quel giorno è arrivato quando gli ho tolto le rotelle dalla bici. È caduto, si è sbucciato un ginocchio. “Vai via! Non ti voglio!”. “Riproviamo”. “No, odio bici, ti odio”. “Dai, sali”. “Lafanculo!”. Quel giorno ha smesso di essere un alieno e è diventato un bambino. Con il diritto di infuriarsi come gli altri, gridare come gli altri che vuole essere lasciato da solo senza paura di restarci. Mi sentivo come l’astronauta di Space Oddity: lontana milioni di miglia dalla Terra ma tranquilla, convinta che la mia navicella spaziale sapesse dove andare. A Lafanculo! È stato emozionante come quando mi ha detto che era mio figlio. Tranne che per la legge. Per i codici, mio figlio non è mio figlio, così i molti figli che vengono accolti in affido da single e dei quali i governi del Family Day e del Dipartimento Mamme non si curano. In Italia, i single non possono adottare nemmeno quando vengono adottati. Noi non ci arrendiamo. Faremo ricorso, serve produrre una montagna di documenti, compresa la storia di come ci siamo trovati. Questa. Servirebbe di più una legge giusta. Consentire a ogni bambino che desidera essere adottato da un genitore di diventare suo figlio, di lasciare l’orfanotrofio senza dovervi fare ritorno a disimparare l’umanità e a progettare piani di fuga nascosti in valigia. “Mamma, idea! Posso portare mia bici in Ucraina?”. “No amore, in istituto non puoi tenerla”. “Ma così io vengo a Roma!! È duemiladiciasedici chilometri!”. “In bici sono troppi, vengo io in aereo”. “Noo, mamma, bici è mia cosa profumina!”. “Anche la mia”. “Perché mamma e figlio uguali”.
© Francesca Fornario
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8 Replies to “Così sono stata adottata da mio figlio”
Grazie per questo intenso racconto di un amore. Che è tale anche se non istituzionalizzato.
L’adozione è una cosa meravigliosa. Certo avere un cuore come Francesca-aiuta
Leggere queste righe è stata un’ esplosione di emozioni. Grazie.
Ciao Doretta 🙂
Storia stupenda e commovente. Siete ancora insieme?
Grazie Francesca per quello che hai vissuto, grazie per come lo hai raccontato, grazie per averlo condiviso.
Da una storia come questa ogni essere umano (non politicante, è ovvio…) impara qualcosa di più ed è spinto a raccogliere i brandelli perduti di quella umanità cui tutti dovremmo vantarci di appartenere.
Grazie per aver pubblicato questa storia, ammorbidisce l’anima, in un momento storico tanto devastato e devastante. Spero che Francesca e il suo bambino potranno un giorno riunirsi per sempre.