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Mi sento solo.

Sillico (LU) 

I – Captatio benevolentiae con cucchiaio di Maalox

Fra Benedetto ha ottenuto il dottorato in Antropologia con Levi-Strauss all’École Normale Supérieure di Parigi negli anni pazzeschi di Foucault, Lacan, Barthes, Genette, Deridda, Deleuze, Guattari, Bataille e tutto il resto della composita combriccola. Ha rinunciato alla sua brillante carriera accademica e si è fatto frate. E io devo scrivere un pezzo su di lui. Mi sento solo.

 Poi c’era il cinema. La politica. C’erano delle cose.

II – Una premessa teorica proprio non richiesta. 

E così prima di tutto ci piacciono molto le storie di chi abdica o rinuncia perché la distorsione dei valori ce le fa sembrare capitolazioni. C’è del morboso. I valori distorti sono invece quelli inoculati e incubati quotidianamente nei nostri crani spugnosi, e che confondono l’adempimento con il successo e altri concetti noiosamente risaputi e divulgati da un’aspra e accurata critica autoimmune ma drammaticamente inapplicata. E via così. Oppure  il fatto che al fanatismo oscurantista, di cui sopravvivono i ributtanti focolai, si sia sostituito un fanatismo illuminato triste e anemico che cavalca l’ironia scavando furiosamente fino a togliersi la terra sotto i piedi e dissacrare il mistero e il bisogno religioso. Così la critica alla religione secolare, di cui ci si potrebbe tranquillamente disinteressare, non è che una sterile maschera cucita accanitamente da chi non ha l’eccezionale perspicacia di notare che il bisogno religioso è da sempre una necessità umana implicita nel fatto che finiremo gonfi di vermi in un loculo freddissimo, e gli smaliziati di oggi, gli adattati come i prepotenti come i contestatori dei prepotenti, queste nuove entità sono sia cretine che coscienti – quasi subumane – nel negarsi più o meno consapevolmente la mortalità, e in generale molto divertenti e figlie degli stessi piccoli idoli. Un casino che non vi sto a spiegare. Eppoi nelle storie di chi abdica, nel piacere che se ne trae, c’è il fascino del prode che va incontro al fallimento, e una meschinità che si maschera di ammirazione in chi le sta a sentire, dato che imporre una propria condotta al di fuori di quegli stessi valori distorti significa tradire quei valori e porsi fuori da ogni metro di giudizio ritenuto comune e di buon senso, restando soli. Al cospetto di costoro, dei rinuncianti, quindi, ci si sente sgravati, illesi, uomini a stretto contatto con qualcosa di arroventato che è la propria nascosta sconfitta. Ecco. Inoltre la catarsi di un’abdicazione, di un’abdicazione eccellente, quella di un uomo dotato, che ha in mano un dono, incrementa il suo grado consolatorio se pensiamo che il dramma dell’abdicante è esteriore solo nel momento in cui si compie la scelta più o meno sofferta di abdicare, ma per il resto si svolge in quella stessa confusa e magmatica e tesa e inaccessibile e semi-incomunicabile realtà interiore che appartiene a tutti noi poco eccellenti, poco dotati, senza grandi doni in tutti quei momenti in cui, di fronte a seccanti ed inutili e mortificanti controversie, vorremmo scegliere di abdicare ma le nostre facce mostrano sorrisi conciliatori. Senza trascurare quell’avida ambizione da iniziati: in fondo, chi abdica, seppur temporaneamente, ha avuto accesso a conoscenze che bramiamo, e molto del nostro rispetto dipende dal nostro istinto di ladri. La nostra fraternità interessata è quasi rivoltante, ma gli abdicati sono esseri fragili e ricchi. Nonni che raccontano storie a un sacco di ingrati nipoti. Infine ci sono le persone disgustose che si liberano dei loro averi a mezzo stampa e a cui tutti applaudono perché si deve amare la gente generosa, ma stiamo parlando d’altro.  

III – Sull’aspetto che hanno i savi e gli effetti che provocano.

Siccome sono adempiuti, i Savi sono avvolti da un sottilissimo e inattaccabile campo magnetico. Inibiscono i sorpassi e provocano file compunte e liturgiche dietro di loro. Possono infliggerti lezioni molto semplici, come che per visitare Sillico la cosa migliore da fare sarebbe recarvisi. I Savi sono lontani da ogni vanità, non giudicano e sono incoraggianti, non si beano di nessuna sudditanza, non la inducono né la impongono, ma loro malgrado la producono. La colpa non è dei Savi, ma dei Non Savi. I Non Savi hanno il vizio di pensare alla cultura come a un coltellaccio da brandire di fronte agli inermi. Essi studiano per emanciparsi. Qualunque cosa questo voglia dire. Il più delle volte vuol dire questo: servirsene continuamente (della cultura) per spargere il terrore (di sé e della cultura) per mezzo di inibenti smazzate di citazioni e uno sfacciato saccheggio gergale \ terminologico e il suo minaccioso sfoggio. Sicché di fronte ai Savi tutti i Non Savi si sentono in malafede e non dicono niente e fanno gli umili e i timidi contriti. Questo comportamento non è indotto dai Savi, dunque. Nella casa dei Savi i Non Savi hanno paura a muoversi e tendono a formare una massa compatta e rassicurante che distribuisca su tutti i componenti della massa dei Non Savi qualsiasi eventuale disagio inavvertitamente apportato al percorso del Savio o un certo sporadico danno inflitto all’arredamento della casa del Savio, che si ritiene preziosissimo. Al cospetto del Savio tutti i Non Savi temono segretamente di incappare nella sindrome di Tourette e mettersi a proferir sconcezze, e dato che convivono con questo timore, che equivale alla malafede, non appena il Savio adopera una parola Rabelesiana, quando cioè il Savio fa esplicitamente riferimento alla Merda, essi si sentono sollevati e pronunciano battute distensive sulla simpatia e l’inaspettata freschezza terminologica del Savio, che nessuno si aspettava così giovane e alla mano e disposto alle parolacce, e nessuno pensa al fatto che la Merda è una cosa antichissima.

IV – Una coda lirica quasi ridicola

Non potrebbe trattarsi di questo? Ho immaginato la sua giovinezza, le grandi aule brulicanti, o il rumoroso silenzio delle biblioteche. Le costole screpolate dei libri e i visi troppo amati che si levano a stento dagli appunti. Occhi velati da qualcosa di analitico. I professori attesi con amore, e il dramma del loro cammino a ritroso verso la purezza, e il ritrovarla spuria. Un senso di amarezza nella contorsione delle loro labbra. Amori che diventano discorsi e la lunga maestà di secoli di cultura un’efflorescenza superficiale. La lente chirurgica di un’epoca di titani dell’intelletto pronta a diluirsi in una farneticazione. Forse era il desiderio di essere illeggibili. Di poter elargire quello che non ci è dato. Non lo so. Tenere al sicuro il mistero. Io avrei voluto parlarvi di tre cose, di fondo: il rosso palpito di fibra ottica del suo sigaro acceso, la frusciante manipolazione di un posacenere, e come una complicità implicita nell’assestamento di ogni ultima parola: cercare un contatto dietro il faticoso e inappagato compito assegnato alle parole: mostrarsi celandosi.              

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

3 Responses to “Mi sento solo.”

  1. Stefania Adami scrive:

    Questo Pezzo mi ha fatto venire, la fibrillazione atriale, l’ulcera duodenale, l’ernia inguinale e la commozione cerebrale!!! E’ soprannaturale!!! Bestiale e tridimensionale. (Che sia caduta in uno sfacciato saccheggio gergale???) (Ti prego NO!) Ho provato un’emozione antichissima (quasi come la Merda), non ce la faccio a trattenerla (quasi come la ….) Matteo sei …sei….sei… troppo superiore, quasi Savio direi, davvero!!!
    Stefania.

  2. Graziano Cipollini scrive:

    Difficile, comprensibile nell’incomprensibile , ma vero.
    Siete invitati a cena entrambi.

    Cognac e antico toscano non mancheranno.

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