Cronache

Addomesticare il Mostro – di Isabella Tholozan

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 Addomesticare il Mostro

 
Il Tema

L’opera fotografica che presento è frutto del laboratorio che si è svolto nel corso del 2015 all’interno delle attività di “arte terapia” tenute dall’Associazione “Iuta” di Lavagna, in provincia di Genova.

L’associazione, nata nel 2010, si occupa di educazione e creatività in campo didattico, sociale e terapeutico.

Grazie alla volontà delle cinque partecipanti, è nato un percorso di fotografia sviluppatosi in modo parallelo al percorso terapeutico, allo scopo di indagare e approfondire la ricerca da un punto di vista personale, attraverso l’uso del medium fotografico.

“Addomesticare il mostro”, oltre al titolo, è il tema dal quale si è sviluppata l’attività esplorativa, alla scoperta dello scomodo bagaglio emotivo che ci trasciniamo al seguito.

L’idea è stata quella di esprimersi attraverso il “corpo cieco”, lavorando sul sentire, prima ancora del vedere, all’interno di quello che, ognuna delle partecipanti, ha identificato come “il proprio mostro”.

La scommessa? Dare una forma alle personali difficoltà, paure, nevrosi, sentimenti, in direzione di una possibile trasformazione e soluzione.

Il lavoro terapeutico è stato supervisionato da Silva Masini, Gestalt Counsellor e MusicArTerapeuta nella Globalità dei Linguaggi, formata con il metodo Judy Weiser, coadiuvata, per la parte fotografica e stenopeica, dalla sottoscritta.

 
Il Processo Creativo

L’attività si è sviluppata alternando momenti di condivisione e dialogo ad altri dedicati esclusivamente alla fotografia, in questa fase si è scelto di implementare l’uso della macchina digitale con una a foro stenopeico, caricata con carta fotosensibile.

Questa tecnica, più lenta e meditata, ha obbligato il gruppo a fermarsi e ragionare su come costruire lo scatto, utilizzando il medium in maniera coerente con il tema, approfondendo anche la parte tecnica, dedicata ai tempi e all’uso espressivo della luce.

Sono stati giorni di confronto creativo in cui tutte si sono dovute industriare allo scopo di inventare veri e propri set di posa, cercando, come già accennato, di dare forma al proprio sentire, rappresentandosi attraverso una personale visione espressiva.

L’avvicendarsi di ognuna, dallo scatto alla posa e viceversa, si è dimostrata una fase di sperimentazione vincente, poiché ha offerto, in fase di editing, una visione nuova di sé, scaturita grazie a quanto catturato da occhi esterni.

La tappa centrale è stata un impegnativo momento di confronto cui è seguita la scelta delle immagini, la progettazione dello scatto con la scatola stenopeica e il successivo sviluppo delle immagini analogiche.

 
Generi d’immagine impiegati nella realizzazione dell’opera: rappresentazione, segno, simbolo.

L’attività di laboratorio ha avuto un’imprescindibile e totale libertà espressiva; dovendosi impegnare a dare forma a una parte segreta di se stesse, nessun limite è stato messo alla tipologia d’immagini potenzialmente realizzabili.

In alcuni casi è stato scelto di costruire la propria fotografia in condizioni di luce scarsa, con soggetti in movimento e con l’uso di proiezioni realizzate con gelatine e acetati.

Gli scatti stenopeici hanno rivelato visioni metafisiche particolarmente suggestive, utili alla riuscita della rappresentazione dei segni e dei simboli, risultati magicamente intrisi del messaggio che si desiderava comunicare.

Il racconto fotografico che ne è nato è apparso subito coerente e logico nello svolgimento laddove ogni storia si è sviluppata attraverso quattro immagini, delle quali l’ultima stenopeica.

Le imperfezioni dovute alla precarietà della macchina autoprodotta amplificano la volontà di ricerca creativa, forte della necessità delle autrici di voler comunicare quel processo di autocoscienza e di esplorazione dell’Io e del Sé.

 
La Poetica
Sono cinque le brevi storie che si susseguono in ordine temporale, a raccontare che:

  • I sogni ci contraddistinguono ma i lacci educativi e sociali ci rendono vittime di status che umiliano e costringono a rinunciare a quello che in realtà siamo. Metaforicamente cieche, diventiamo quello che altri vogliono; difficile e faticoso liberarsi dei legami che ci affliggono

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  • L’ardua ricerca del Sé è raccontata attraverso l’uso del corpo nudo, vestito solo di segni e maschere; l’esito non sempre è libero dal compromesso ma la maturità saprà rendere tutto più leggero e meno inquieto.

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  • La maturità, non solo anagrafica, costringe a guardarsi indietro, alla ricerca dei sogni riposti e delle aspettative mancate. Un trascendere di luci e forme che vogliono portare lo spettatore ad avere sensazione di ciò che può essere il senso di frustrazione causato dall’impossibilità di cambiare le cose.

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  • Il “tempo” trascorre, ci schiaccia con il suo peso insolubile; niente riesce ad evitare la sua sopraffazione. Non solo biologico, l’orologio ci insegue, a ricordarci quanto rimane del nostro tragitto.
    La soluzione è nel riuscire a trovare la forza per vincere questa continua tensione, fermarsi nell’immobilità di un gesto impercettibile, allo scopo di comprendere.

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  • Il buio spegne le nostre emozioni, portandosi via chi abbiamo desiderato e amato; troveremo comunque la forza per una rabbiosa reazione di riscatto, consapevoli della luce che, quieta, ancora può splendere dentro di noi, oltre l’oblio dei ricordi.

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Conclusioni

Queste sono le personali storie raccontate attraverso l’uso d’immagini nate grazie allo stimolo emotivo venutosi a creare durante gli incontri di laboratorio che, come ho già avuto modo di dire, prevedevano momenti di dialogo, condivisone e lettura delle immagini.

L’attività è stata portata avanti con serenità e senza ostacoli, seppur con momenti di forte emozione, generata dall’empatia e dal rispetto che tutte le partecipanti hanno dimostrato verso i sentimenti e il sentire di ognuna, senza mai cedere alla trappola del giudizio.

Contrariamente alla fotografia detta “consapevole”, questo genere di laboratorio richiede la figura di un “terapeuta” che si pone come facilitatore del processo creativo e della narrazione, allo scopo di utilizzare il potere delle immagini per il raggiungimento dell’obiettivo prefissato e la risoluzione dell’eventuale problema psicologico.

Sento di dover dare questa precisazione per far capire che questo genere di attività, per chi desidera approcciarsi a uno strumento espressivo alternativo, ha il grande merito di ampliare le opportunità creative e “di far accedere a un ventaglio di risposte evocate da quello che  si sta guardando e dal vissuto costruito e/o ricostruito in questo atto (…). Il lavoro terapeutico consiste nell’interagire con questa costruzione o nel co-costruire insieme al paziente la narrazione di vita che prende forma nella relazione”(Oliviero Rossi 2009, 26).

L’esito finale, nonostante l’attività sia stata svolta a più mani, ha permesso una lettura delle immagini che segue comunque un percorso lineare, trasportando l’osservatore attraverso un filo narrativo emozionale e molto coinvolgente.

Se la prima immagine induce al mistero, l’ultima afferma una risoluzione emotivamente positiva, rivolta alla speranza e alla vita.

Una bellissima esperienza che ha avuto, come grande merito, quello di far comprendere la grande forza delle immagini, anche a persone totalmente digiune di cultura fotografica.

Grazie a: Silva Masini, Simona Guerra, Alice Jankovic, Carmela Pistidda, Daniela Spaggiari, Elide Menichetti.

Isabella Tholosan

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11 commenti

  1. La fototerapia è sempre più una realtà diffusa in particolare tra le fotografe, si ha l’impressione che sia un fenomeno di genere ma non è così.
    Ringrazio Isabella Tholzan d’aver accolto la mia richiesta nel dare visibilità a questo laboratorio, nel quale lei è stata una delle protagoniste.
    Perché la fotografia può essere terapeutica?
    Per rispondere non ricorro a libri specifici ma attingo dalla mia esperienza diretta e le conoscenze che ho maturato personalmente.
    La fotografia è un modo per rendere visibile la proiezione psichica provata dal fotografo nel guardare il mondo.
    La fotografia è in grado di dar una forma all’indicibile, quando la si esercita seguendo coraggiosamente quell’intuizione che nasce lasciando ruota libera la scelta di cosa fotografare e come fotografarlo.
    Si sa che la cura della psiche si opera facendo emergere dall’inconscio i conflitti che l’affliggono.
    Quando realizziamo un’immagine che sentiamo come rappresentazione metaforica di un nostro stato d’animo, abbiamo già iniziato a curarci perché l’immagine compie una magia importante: quella di dare una dimensione a un disagio che ci sembrava smisurato.
    Quando si riesce a mettere in azione l’espressione di un linguaggio si è già messo in moto una fase terapeutica (anche solo per l’accendersi di un’autostima) e la fotografia è potente in questo perché non richiede sforzi ed è rapidissima.
    Quanti fotografi hanno superato depressioni o condotto elaborazioni di eventi dolorosi dell’anima.
    Il laboratorio presentato da Isabella Tholozan va molto oltre spingendosi nell’ideazione scenica della rappresentazione simbolica. Per questo ci appare un mondo misterioso e sconosciuto, che, per come è stato messo in scena, non dobbiamo giudicare perché siamo nell’ambito del soggettivo ed è molto difficile che esso possa parlare a tutta la collettività.
    C’è chi la capirà e chi no. Leggiamo con rispetto queste sofferte ricerche del Sé che queste fotografe hanno condotto insieme.
    Complimenti a Isabella Tholozan per questa sua forte attenzione e sensibilità verso una dimensione tanto intima della femminilità.

  2. Un laboratorio veramente molto interessante che conferma ancora una volta come la fotografia si spinge in direzioni diverse, talvolta apparentemente slegate e inconciliabili tra loro. La fotografia è sicuramente uno strumento preziosissimo per prendere coscienza di sé stessi e delle proprie zone d’ombra, costituendo quella scintilla che permette di superare l’impasse che a volte la vita ci mette di fronte e di esorcizzare ciò che sembrerebbe insuperabile, per poter ripartire con nuova energia e libertà. Complimenti ad Isabella per aver messo a disposizione le sue competenze a favore di questo progetto, che sicuramente le avrà regalato un bagaglio umano importante.

  3. Bè vedo molto coraggio,la capacità di regalarci/re le emozioni delle partecipanti,coadiuvate da Isabella, una grande sensibilità in Silvano nel cercare di condividere con noi la sua interpretazione “La fotografia è un modo per rendere visibile la proiezione psichica provata dal fotografo nel guardare il mondo”.

  4. Mi piace molto,in che modo autrice riuscita interpretare disagio psicologico,che puo succedere in certi momenti della vita! Ed è veramente terapeutico soltanto provare a raccontare qualcosa ,fotografando!Complimenti,Isabella!

  5. Sicuramente un ottimo lavoro scaturito da una lodevole iniziativa con risultati di grande fascino.Mi soffermo solo su una mia percezione del tutto soggettiva visto che non sono donna, trovo fotografie troppo formali, la cui bellezza espressiva e compositiva in alcuni casi sovrasta il contesto. Potrebbe essere che la ricerca del bello e del formalismo sia parte integrante della terapia, ma ancora una volta mi stupisco che non ci sia il colore, con cui trasmettere e riversare su chi guarda l’angoscia di pulsazioni di vita rivissuta tramite un’immagine prima immaginata e poi scattata, o scartata, ma anche presto scordata.

  6. Isabella Ci ha fatto vedere quanto la creatività possa essere anche terapeutica, in quanto scavare dentro noi stessi, dentro le nostre angosce e i nostri desideri, ci porta a liberarci dei lacci convenzionali e a mostrare agli altri la nostra vera natura. Ed esemplificative sono le foto eseguite con la tecnica del foro stenopeico, mezzo con il quale è possibile liberare ancor più la creatività, senza dover pensare a tecnicismi e alchemici calcoli.
    Grazie davvero ad Isabella per averci presentato questo interessante lavoro; la sua capacità didattica e creativa è veramente inesauribile.

  7. Bravissima Isabella per come è stato impostato e svolto il laboratorio. Immagino che il lavoro abbia portato a dei risultati veramente liberatori e utili al processo evolutivo delle partecipanti. Non entro nel merito delle immagini perché già chi mi precede nei commenti ha saputo darne buona nota. Conosco delle realtà molto difficili che ne avrebbero grande bisogno e spero che questo tipo di lavoro possa essere maggiormente conosciuto ed intrapreso.
    Complimenti ancora

  8. In tutte le arti, e quindi anche in fotografia, penso che la creatività si abbia nel momento di equilibrio tra le funzionalità gestionali di interpretazione logica/razionale (emisfero sinistro del nostro cervello) con quelle percettive di interpretazione istintiva/emotiva (emisfero destro del nostro cervello).
    Le modalità fotografiche poste in atto nel laboratorio, che ci descrive Isabella, con la tecnica lenta e mediata del foro stenopeico, il fermarsi a ragionare su come dare forma ai propri stati d’animo attraverso l’uso più appropriato ed espressivo della luce, dei segni, dei simboli a realizzare i set di ripresa, sono sicuramente un buon metodo per favorire l’interazione tra razionalità e istintività, tra logica ed emotività.
    Un risultato veramente interessante, complimenti…

  9. Ognuno di noi, donna o uomo, ha un proprio “mostro“. Addomesticarlo vuol dire riuscire ad entrarci in contatto, conoscerlo e fare in modo che la sua forza non si opponga, ma si unisca, alle nostre forze, e ci aiuti a sviluppare e far emergere i nostri talenti.
    Isabella ci accompagna in questo interessante e coinvolgente laboratorio e ci propone la fotografia come strumento terapeutico e la condivisione di gruppo come chiave di liberazione dei nostri blocchi.
    Interessante anche la varietà di “mostri”, che non risparmia nessuno, né le giovanissime, che spesso pensiamo spensierate e senza problemi, né le donne mature, che riteniamo forti e senza bisogno di aiuto.
    Aspettiamo con curiosità i risultati del prossimo laboratorio, dove forse potremo conoscere un “mostro” al maschile?
    Complimenti ancora Isabella!
    Barbara

  10. Spesso uso il termine fototerapia. Il laboratorio di Isabella e’ un percorso personale e collettivo di altissimo valore. Sarebbe bello e credo utile a tutti, poter partecipare ad un lavoro del genere, di indubbio accrescimento sotto ogni aspetto. Ancora tantissimi complimenti.

  11. La fotografia in generale essendo espressione del proprio sentire è già a mio parere terapia.
    Dentro alle immagini c’è l’autore con il suo carattere, formazione, cultura.
    L’autore stesso può riconoscere elementi a lui sconosciuti che se analizzati, magari aiutato da una figura esterna, possono essere utili nel darsi delle risposte, possono risultare utili per migliorare il rapporto con se stessi e con le altre persone.
    In questo caso il laboratorio é decisamente andato più in profondità mettendo in discussione la persona stessa consapevole che potenzialmente era un percorso liberatorio. E l’averlo accettato é stata una prova di grande coraggio da parte di tutti
    Poteva mettere in crisi gli ideatori stessi.
    Complimenti per il lavoro svolto

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