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Desiderio di coma.

Le fotografie che seguono il racconto sono state realizzate presso la Comunità Giovanni Rangone di Frascaro (AL), facente parte della comunità San Benedetto al Porto di Genova.

Restavano a lungo nel ristorante dopo che tutti gli altri se n’erano andati ( i cuochi, i camerieri ). Stavano su quel divano in sala da pranzo che solo un astuto e fiorito copridivano riusciva a rendere presentabile. La sala da pranzo nella penombra rosé dell’attardato tramonto estivo, la luce che penetrava dalle vetrate resinose della veranda, lui seduto compostamente, sciolto ma statutariamente composto, nell’ermetismo emotivo di una zip ben chiusa; lei, invece, con le gambe pallide, venose, nude, distese sul divano, la cavigliera sempre, e anche i piedi con le unghie delle dita dei piedi dallo smalto inadeguato scrostato d’incuria, le mani che a lente impercettibili carezze rovistavano il petto di lui, come si vedeva fare nei film, accennavano carezze sui radi capelli della nuca, il calore pudico di un seno che qualche volta lo sfiorava con l’intenzione di offrirgli una possibilità, mani e presenza attente a non dare l’idea di pretendere ricompense, ansiosamente attente ad evitare eccessi o dismisure, il rancore di questa vera e propria repressione seppellita sotto una coltre di amore inspiegabile e a tempo, è brutto dirlo, fatalmente determinato ( ma lei non l’avrebbe mai ammesso ). La sala da pranzo svuotata dopo una domenica di tavolate chiassose e animalesche che reagiva con la solita callosa abitudine al puntuale trauma dell’abbandono, e tutte le volte sembrava una cosa esausta, stuprata, abusata e spolpata, e tutte le volte tornava a rivelarsi peggio di un ricovero per l’esuberanza occasionale di certe vite sedentarie fino al decubito, la necrosi, all’inconsapevole decrepitezza, ma, è brutto dirlo, più semplicemente, il ricettacolo per i piaceri mostruosi e nauseabondi concepiti in seno a quelle vite. Il ristorante non era che una sapida puttana, appetitosa prima, ma disprezzata ex post per le cattive digestioni che procurava. Così, con la stessa dignità di una puttana, la sera si raccoglieva nella quiete ferita di una luce consuntiva, sempre accompagnata da quel dolce desiderio di coma e di morte che dopo ogni cuore spezzato, in momenti come quello, si dimostrava capace di sprigionare quella improvvisa liberazione dal vincolo della sopravvivenza: una sensazione così bella e leggera e catartica che, proprio grazie ad essa, la serenità e la voglia di riprovare avrebbero presto riconquistato il cuore e la mente solo per lanciarli un’altra volta, con la stessa identica brutalità, nel bel mezzo di una futura mischia, dalla quale il cuore e la mente si sarebbero sottratti con nuove fratture e nuove delusioni e il desiderio di una catarsi più forte, di una dose più forte di catarsi, insieme al terrore che la catarsi questa volta sarebbe mancata, o che sarebbe stata di una quantità insufficiente a dominare la paura. Allora lui si sentiva solo, completamente solo, deluso, disilluso e incapace di trovare un senso, perso nella complessità, senza nessuna speranza, disperato.

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Restavano a lungo nel ristorante dopo che tutti gli altri se n’erano andati ( i cuochi, i camerieri ). Stavano su quel divano in sala da pranzo che solo un astuto e fiorito copridivano riusciva a rendere presentabile. La sala da pranzo nella penombra rosé dell’attardato tramonto estivo, la luce che penetrava dalle vetrate resinose della veranda, lui seduto compostamente, sciolto ma statutariamente composto, nell’ermetismo emotivo di una zip ben chiusa; lei, invece, con le gambe pallide, venose, nude, distese sul divano, la cavigliera sempre, e anche i piedi con le unghie delle dita dei piedi dallo smalto inadeguato scrostato d’incuria, le mani che a lente impercettibili carezze rovistavano il petto di lui, come si vedeva fare nei film, accennavano carezze sui radi capelli della nuca, il calore pudico di un seno che qualche volta lo sfiorava con l’intenzione di offrirgli una possibilità, mani e presenza attente a non dare l’idea di pretendere ricompense, ansiosamente attente ad evitare eccessi o dismisure, il rancore di questa vera e propria repressione seppellita sotto una coltre di amore inspiegabile e a tempo, è brutto dirlo, fatalmente determinato ( ma lei non l’avrebbe mai ammesso ). La sala da pranzo svuotata dopo una domenica di tavolate chiassose e animalesche che reagiva con la solita callosa abitudine al puntuale trauma dell’abbandono, e tutte le volte sembrava una cosa esausta, stuprata, abusata e spolpata, e tutte le volte tornava a rivelarsi peggio di un ricovero per l’esuberanza occasionale di certe vite sedentarie fino al decubito, la necrosi, all’inconsapevole decrepitezza, ma, è brutto dirlo, più semplicemente, il ricettacolo per i piaceri mostruosi e nauseabondi concepiti in seno a quelle vite. Il ristorante non era che una sapida puttana, appetitosa prima, ma disprezzata ex post per le cattive digestioni che procurava. Così, con la stessa dignità di una puttana, la sera si raccoglieva nella quiete ferita di una luce consuntiva, sempre accompagnata da quel dolce desiderio di coma e di morte che dopo ogni cuore spezzato, in momenti come quello, si dimostrava capace di sprigionare quella improvvisa liberazione dal vincolo della sopravvivenza: una sensazione così bella e leggera e catartica che, proprio grazie ad essa, la serenità e la voglia di riprovare avrebbero presto riconquistato il cuore e la mente solo per lanciarli un’altra volta, con la stessa identica brutalità, nel bel mezzo di una futura mischia, dalla quale il cuore e la mente si sarebbero sottratti con nuove fratture e nuove delusioni e il desiderio di una catarsi più forte, di una dose più forte di catarsi, insieme al terrore che la catarsi questa volta sarebbe mancata, o che sarebbe stata di una quantità insufficiente a dominare la paura. Allora lui si sentiva solo, completamente solo, deluso, disilluso e incapace di trovare un senso, perso nella complessità, senza nessuna speranza, disperato. La sala da pranzo gli comunicava questo, tutto questo, che ci crediate o no, ogni santa Domenica del Signore. Il vecchio se ne andava per ultimo, e ogni volta, immancabilmente, sembrava obbligato, dopo aver sistemato cassa e conteggi con il sospetto maniacale di chi teme un parricidio ( attenendosi, d’altra parte, a prove concrete la cui recidiva, però, lui non temeva, ma attendeva all’angolo come un sicario la cui unica fiducia era riposta ormai solamente in un contorto sesto senso che aveva bisogno di una conferma ), sembrava obbligato ad annunciare che se ne andava, a rivelare al pubblico la sua intenzione di andarsi a fare un bel sonno ristoratore, una bella e lunga dormita. Nel farlo, di solito restava in piedi davanti a loro, esitando, trattenendosi e attardandosi, manipolando il suo mazzo di chiavi come un sonaglio, infilando un dito nell’asola vellutata del portachiavi, elargendo al figlio consigli scrupolosi ma risaputi, consigli piovuti dall’alto di una fondamentale sottostima delle reali capacità del figlio, addolcendo untuosamente quegli stessi consigli una volta che li rivolgeva a lei, per equilibrare, non sapeva bene perché, una situazione che seppure confusamente gli appariva sbilanciata, ingiusta di un’ingiustizia che si vergognava ad ammettere. Ma qual’era? E significava ammettere cosa? Insieme ai consigli, rivolgeva alla fidanzata del figlio occhiate tanto incisive quanto indugianti, che faticava a ritirare, e alle quali lei, la fidanzata del figlio, finiva senza volerlo per replicare con un’incisività e un indugio inavvertitamente simili, e che lui, il figlio, coglieva immediatamente, soffrendo in silenzio, completamente represso, e che il padre apprezzava e dalle quali riusciva a sentirsi gratificato senza provare colpa e via dicendo, grazie all’assodata maturità del carattere e all’abitudine virile a prendere quello che gli serviva ( una cosa che faceva indispettire il figlio, perché lui non ne era capace, si supponeva per colpa del padre ), e riflettendo sulla sua incapacità di evitarsele la fidanzata del figlio non poteva fare a meno di sentirsi una puttanella e di vergognarsi, perché guardava così il padre del suo fidanzato anche se non lo amava affatto, e anzi, poteva fare tanto di dire che lo disprezzava anche un po’, ma non riusciva a smettere di guardarlo così né di replicare con occhiate lascive alle sue occhiate lascive, quando invece era chiaro come il sole che tutto il suo amore era diretto all’uomo sopra al quale stava rannicchiata, fra il sensuale, il tenero e il materno, e pure lei aveva di che sentirsi un bel po’ in colpa. In fondo anche il vecchio si sentiva in colpa, ma non lo sapeva. Tre enormi e primitivi sensi di colpa si lambivano nella sala da pranzo nonostante tutti e tre i presenti disertassero la chiesa cattolica apostolica da secoli, e quando il prete tendeva il suo agguato benedicente mancava poco che gli rovesciassero in testa una secchiata di merda, e nonostante lei avesse manifestato e partecipato a un picchetto in favore della liberalizzazione delle droghe leggere, e nonostante lui fosse iscritto ad un circolo Arci e da lunghissimo tempo si impegnasse per i diritti delle minoranze e contro le discriminazioni sessuali e nonostante il vecchio avesse partecipato alla lotta operaia e si fosse incatenato ai cancelli coi suoi compagni di lotta e non faceva altro che dichiararsi libertario e aperto di mente, perché poi nessuno di loro poteva ammettere di essere stato così presuntuoso da aver tirato su o aver progettato case senza mattoni. L’amore non esiste, l’amore non esiste, l’amore non esiste era il ritornello migliore per far si che non esistesse. Quindi il vecchio restava lì. Nella sua ridondanza di attenzioni riconosceva le proprietà nobili della sua paternità, che dovevano ora dimostrarsi oggettivamente agli altri, vale a dire al figlio ( che però le detestava ), e alla fidanzata del figlio ( dalla quale si aspettava di essere ammirato come padre eccellente – aumentando la dose di attenzioni, che il figlio, come avrete capito, detestava ). Il padre e il figlio si fissavano senza comunicarsi niente, arroccati nel proprio orgoglio irrinunciabile e disposti, pur di non cedere, a donare al mondo intero un altro piccolo faticoso ceppo di infelicità inutile e non prevista, ma sempre pronti a partecipare e a fare di tutto per arginare quell’infelicità globale che però, senza che lo sapessero, dipendeva soltanto dalla folle somma di tutti quei piccoli ceppi di infelicità che loro non facevano che irrigare competendo e lottando, perché questo era lo schema della civiltà ( e allora? ). Il blasone delle attenzioni del padre era ormai per sempre macchiato dalla meccanica della ripetizione, dall’offesa dell’automatismo sterile almeno quanto quel fastidiosissimo maneggiare il mazzo di chiavi al solo fine di esitare e restare sulla scena ( Vincere! Ma cosa? ), perché il padre si condannava da solo al patibolo, e anche il figlio si condannava al patibolo, che a condannare suo padre non ci stava. Infatti il figlio aveva imparato a non reagire almeno esteriormente con l’offesa, la rabbia, il fastidio filiale. Lasciava che le cattive impressioni a cui ormai aveva fatto il callo passivamente – perché il padre, come tutti i padri, non avrebbe capito, e non avrebbe capito perché non avrebbe potuto vederle né riconoscerle – decantassero, come duri sedimenti, sul fondo di un’abissale autocommiserazione che da più di qualche tempo sapeva diventare tanto meno languida e piagnucolosa quanto più assumeva, indurendosi, la forma di un processo nei propri confronti, dalla sentenza piuttosto prevedibile. Il figlio non sottoponeva più neppure al minimo tentativo d’introspezione o analisi questi sedimenti che atterravano con un boato sordo sul fondo del buio abisso che aveva approntato quasi scientificamente, dato che credeva fosse inutile ( oltre che una dissipazione di energie che non poteva più permettersi ) impegnarsi a sviscerare ciò che il mondo che lo circondava, un mondo tutto di padri, riteneva, a priori, per autodifesa, incomunicabile ( a volte indegno di essere comunicato, oppure sciocco, senza valore ). Il figlio annuiva soltanto. Ripensava così a tutte le volte in cui, nella sua vita quasi del tutto irrisolta, aveva fatto ricorso ad aiuti, guide, mentori, maestri, istruttori perché credeva ingenuamente che senza di loro non ce l’avrebbe potuta fare ( il fatto di aver mantenuto troppo a lungo questo atteggiamento innocente era il suo primo capo d’imputazione al processo ). Ma in questa ricerca e affidamento, tutto quello che otteneva era di mettere in scena, senza mai tirare davvero il fiato ( essere irresponsabili aveva il suo prezzo, d’altronde ), lo spettacolino patetico delle sue qualità, a beneficio di altri padri ancora, di cui si riempiva la vita senza la minima consapevolezza che un padre al quale il figlio si sottopone completamente, castamente onesto, resta orgoglioso del figlio solo fino a quando non ne avverte la minaccia, il tentativo di sottrarsi al giogo ( questa era la natura dei padri, destinati per questo a morire, e per questo sempre timorosi di essere uccisi e pronti ad uccidere per primi ). Eppoi, le qualità messe in scena in quelle occasioni, erano, come si può capire, incomplete e dilettantesche, perché timide, rinunciatarie e limitate come ognuno di quei padri pretendeva senza accorgersene. Si era messo, insomma, nelle mani dei giudici, il che gli imponeva di fare tutto il possibile per non essere condannato ( vivendo, però, non sarebbe stato possibile restare incolpevoli. Vivendo la condanna sarebbe stata inevitabile. E a quel punto la domanda più interessante da porsi era: come diavolo avevano fatto i giudici a diventare tali? ) ( Ma che importanza poteva avere, ormai ). Così, finché rimaneva preda del languidume dell’autocommiserazione, la presenza della sua fidanzata risultava in qualche modo ancora capace di suscitare una tenerezza consolatoria, dato che lei, per via di quello che poteva essere definito un amore inspiegabile, si era decisa a rappresentare il rifugio contro il troppo dolore che il figlio sentiva, dovuto, da quanto si capiva, al senso di ingiustizia per essere finito in un mondo sul quale non aveva avuto facoltà di scelta e nel quale ogni azione intrapresa per risolvere il suo stato doloroso non solo non aveva la minima incisività, né potere di riscatto, ma era anche turpe, deplorevole, colpevole ( oppure sciocca, senza valore ). Quando però si metteva in moto il processo, e succedeva sempre più spesso, anche quello stato di deviato abbandono filiale alla sua fidanzata ( fidanzata che, da parte sua, ogni tanto si accorgeva di amarlo di un amore strano, quasi incestuoso ), perdeva non soltanto la sua efficacia, ma la stessa ragione di sussistenza. Quando si metteva in moto il processo arrivava a provare un sentimento che trascendeva la consolazione e la tenerezza, la pace di una rassegnata condizione di disgrazia e sottomissione, ma provava un’altra cosa, qualcosa che si agitava di vita propria e che non provava da tantissimo tempo, vale a dire piacere; aberrato, certo, ma nella forma intensa e penetrante che nasce da se stessi, come il proprio seme, a partire dalle piaghe e dall’accanimento: una parte significativa di questo piacere stava nel fatto che gli permetteva di non sentire quasi più niente di quello che lo feriva ( e che aveva innescato il disprezzo e dato vita al processo e al piacere stesso). Era come un fluido viscoso nel quale annegare. Non rabbia, non odio. Semplicemente lo stato in cui l’anima, accortasi di non poter più percorrere alcuna strada, per continuare a nutrirsi divora se stessa: a tutti gli effetti, una putrefazione ante mortem. (E nel frattempo continuare a lavorare, a studiare, a salutare la gente, a scopare; eccetera eccetera eccetera ). Matteo Fulimeni

 

 

© Giovanni Marrozzini

 

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2 Responses to “Desiderio di coma.”

  1. Milko Mattiacci scrive:

    bellissima storia!

  2. riccardo scrive:

    ciao bellissime foto quando tornerai a trovarci?belle veramente belle

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