COPERTINABERGAMASCO_ALB1746

La nuova mamma.

Le fotografie che seguono il racconto sono state scattate presso la Comunità di San Nicolao – Bergamasco (AL), facente parte della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova.

C’era un piccolo televisore alto sotto al soffitto, tenuto su da un braccio nero e snodato di metallo. Occupava l’angolo della veranda dove la porta scorrevole restava quasi sempre scostata per il ricircolo dell’aria. Era un vecchio spigoloso quindici pollici dove la polvere giaceva indisturbata da moltissimo tempo e il pulsante d’accensione di plastica rettangolare che a premerlo frignava. Il telecomando si ammutinava continuamente e aveva bisogno di sberle ben assestate. Ogni tanto la plastica del televisore emetteva scoppiettii secchi e sinistri, piccole esplosioni simili al rumore delle ossa che scricchiolano. Una volta che si era fatto buio, e dallo spiraglio della porta scorrevole cominciavano ad accedere truppe di zanzare insolenti, la luce della sala si colmava di un colore primario alla volta, seguendo un’alternanza rapsodica che dipendeva dalle proposte del televisore. Le vampe blu acquario tese al violetto pennellavano le gambe nude di lei rendendole dello stesso colore degli annegati ripescati e trascinati gonfi sugli argini di qualcosa. In quel silenzio immobile che doveva essere complice ma non era niente scorrevano e si alternavano interi palinsesti, consultati con distrazione e noia. Dall’esterno venivano pochi rumori, e tutto quello che c’era fuori sembrava di un’immobilità altrettanto indolente. Il pacato rumore del fiume che scorreva si rivelava, come al solito, soltanto una suggestione. Ogni tanto lui si alzava per andare a pisciare e lei lo aspettava lì come se fosse suo dovere, ascoltando con morbosa attenzione il piccolo fragore che riusciva a sentire nitido per via della porta del bagno lasciata spalancata: quando tornava si accoccolava di nuovo su di lui, ma ogni volta con una tenerezza sempre più latente. Insospettito dalla trama di qualche rumore che oltrepassava le facoltà uditive umane, Zeno balzava fuori dalla cuccia trascinandosi dietro il catenaccio arrugginito che più che scorrere sembrava esplodere dalla cuccia. Poteva abbaiare un paio di volte anche se il suo allarme era rientrato, come se fosse costretto da una specie di vergogna ad ufficializzare il suo troppo allarme precedente. Stupido cane, diceva lui. Lei diceva non è vero. A quel punto il tonfo ottuso e sfrigolante di una falena contro la griglia del neon rimasto acceso in cucina ( o qualunque pretesto considerato sufficiente ), la induceva ad alzarsi dal divano. Lui non la osservava allontanarsi. Ogni volta che andava in cucina a quell’ora per procurarsi una bottiglia di minerale alla quale attaccarsi ( c’erano cassette d’acqua minerale impilate contro la parete fra i frigoriferi e i fornelli ), mentre restava a fissare la falena che stupidamente si sfiniva contro una luce artificiale, immaginava che lui l’avrebbe raggiunta e issata sul bancone di zinco per scoparla con durezza, ripulendo a smanacciate la piccola zona attorno a loro da utensili e padelle, bofonchiando mentre lei gemeva. La furia della scopata avrebbe potuto richiedere uno spazio più esteso di quanto fosse necessario. Soltanto dopo avrebbero pensato a ripulire. Il casino avrebbe snidato il lezioso rosicchiare di un paio di roditori non autorizzati. Una fantasia talmente banale e preconfezionata che tutte le sante volte le veniva lo stimolo di andare a vomitare. Peraltro, lui si presentava davvero, e con intenzioni non troppo diverse. Che lui si ripresentasse svelava come persino il prologo della sua fantasia erotica fosse debole, pigro e preconfezionato, accrescendo il suo senso di nausea. Ma lui aveva nei piani una variazione, e le ordinava di scoprire solo una porzione di pelle, per masturbarsi focalizzato solo su quella ( un pezzo di addome, una clavicola, la parte del seno che precedeva la scollatura ). Chiedeva una semplice porzione, circondata dagli abiti ( che le ordinava di non togliere ), come un chirurgo su un tavolo operatorio. Si masturbava focalizzandosi su quell’unica porzione, mentre lei si limitava a tenergli la mano libera sulla coscia, con carezze strozzate, vicino alle natiche che spuntavano debolmente appena sotto l’orlo della maglietta. Lei amplificava i piccoli gemiti dovuti alla fatica della posizione che aveva assunto – si accovacciava per facilitargli le manovre – rendendoli irragionevoli gemiti sessuali, e si compativa un po’, per questo, mentre con l’altra mano, leggermente tremante, scopriva il suo prezioso dettaglio anatomico. Lui si masturbava con gli occhi chiusi, con una cadenza costante, senza che nessun indizio di piacere intaccasse i suoi lineamenti anacronistici, e quando lei gli chiedeva con gentilezza se voleva farsi fare un pompino, lui scuoteva la testa infastidito, come da un posto lontano, quasi che la proposta di lei arrivasse a turbare una specie di faticoso equilibrio. Lei restava a fissare attonitamente la laboriosità folle con cui lui scacciava o tamponava l’espressione afflitta e vulnerabile dell’orgasmo, soffocandola sotto il sudario di un impietrito cordoglio, sicché sentiva di aver maturato un credito o un diritto nei suoi confronti ( lei ), per via dell’innegabile umiliazione a cui si sottoponeva in queste circostanze ( ma non l’avrebbe mai ammesso ). Una volta venuto, con molta premura, il vecchio le allungava un rotolo di carta da cucina. Lei ne strappava alcuni pezzi, e altri li inumidiva per smacchiare la maglietta da quelle poche gocce di sperma uscite dalla traiettoria principale. Lui le faceva una carezza ipocrita sulla testa e quando voleva esagerare le dava un casto e paterno bacio sulla fronte. A quel punto, era già tardissimo. Chiudevano tutto rapidamente, ma controllando più volte di aver spento ogni singola luce. Salivano sulla Citroen, dentro alla quale, ballonzolando, costeggiavano le pozzanghere sempiterne di quella estate tremendamente incontinente. Giganteschi occhi glauchi e sgranati nel terreno troppo docile, che al buio riuscivi a vedere soltanto cascandoci dentro. Passavano per le strade svuotate della città, che a quell’ora della notte si svelavano per il pessimo e degradante compromesso che erano durante il giorno. Lei voleva apparire allegra e metteva della musica, commentandola in modo cialtronesco. Facevano una prematura colazione in un sonnambolico caffè dove una compagnia di pellegrini si dimostrava incautamente arzilla nonostante la faccia del barista e le loro due facce. Una o due ore prima dell’alba ( tramonto e alba stringevano come una pinza una notte, alla fin fine, troppo corta ), imboccavano l’ampio, buio e massonico dedalo delle strade di campagna, risalendo le colline. E a dire il vero, lei faceva già valere inconsapevolmente il diritto che pretendeva di aver maturato con la sua consueta umiliazione, travolgendo il suo compagno magro e tetro con tutta un’aneddotica francamente di nessun oggettivo interesse. Ma sotto sotto, sapeva perfettamente quello che faceva. Era ridicola senza potersi fermare. Il vecchio conosceva le sue mancanze croniche, conosceva i suoi doveri, non aveva nulla da obiettare; ma questo non significa che stesse a sentire. Una strada vicinale si faceva sbrecciata mentre affondava e moriva in un piccolo spiazzo sbarrato da un grossolano ed inefficace divieto d’accesso nel cuore di un campo a maggese. Conoscevano bene la strada e il casolare dove una lampadina esterna brillava costantemente anche se in casa non c’era mai nessuno da anni. Mentre si era arrivati alla storia del grande disguido nonché delle peripezie in cui la madre di lei era incappata nel corso di una tranquilla mattina che si sarebbe dovuta esaurire semplicemente in un cambio di look, il vecchio fermava la macchina davanti alla sbarra di divieto d’accesso, il muso che premeva teneramente su un flessuoso muro di avena secca, gramigna ed ortica dal quale decollavano enormi grilli pungolati dagli inattesi fanali lasciati accesi a illuminare un fatuo pulviscolo solcato da altri insetti irrilevanti. Perché lei era diventata all’improvviso così frivola, e si guardava nello specchietto mentre il vecchio scendeva e armeggiava come sempre con qualcosa sopra il tettuccio? Si poneva la stessa domanda continuando a fissarsi frivolamente, ma essere frivola e ridicola era l’unico modo che le restava per essere qualcosa. Oltre lo sportello di guida, aveva una visione decapitata del vecchio. Poi gli raccontava di aver fatto un sogno che l’aveva turbata, perché si trattava di un sogno infantile, genere che lei odiava e osteggiava perché riteneva che al centro delle trame di un sogno infantile ci fosse ogni volta la storia di una perdita irrecuperabile. Questa volta lei tornava a casa dall’asilo e sua madre era un’altra persona. Suo padre le presentava la nuova mamma, e una volta che lei scoppiava a piangere questa nuova mamma si dimostrava offesa e indignata dalle sue lacrime. Anche il padre sosteneva che piangere offendeva la nuova mamma, scelta, d’altra parte, fra molte altre mamme per la sue enormi potenzialità e credenziali, dopo una rigidissima selezione. Lei diceva di essersi sentita tanto sola e incompresa. Prima che lui risalisse lei gli chiedeva più volte se riusciva a capirla, se arrivava a capire la sensazione, se capiva quello che voleva dire. Credo di si, diceva lui prima di risalire. E le prendeva la mano.

Matteo Fulimeni

 

 

© Giovanni Marrozzini

 

 

© Giovanni Marrozzini

 

 

© Giovanni Marrozzini

 

 

© Giovanni Marrozzini

 

 

© Giovanni Marrozzini

 

 

© Giovanni Marrozzini

 

 

© Giovanni Marrozzini

 

 

© Giovanni Marrozzini

 

 

© Giovanni Marrozzini

3 Responses to “La nuova mamma.”

  1. Mariateresa scrive:

    Caravaggio o Majoli? :)

  2. francesca scrive:

    che foto stupende ! bravo gio

  3. Giuliana scrive:

    Qusti volti,appena emergenti dal buio, stuzzicano una smisurata curiosità di di svelare essi stessi e il loro mondo.
    Sembra di ammirare delle Anime…

Lascia un commento