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Generosi padri di famiglia.

Cinisi (PA) – Quanto alla mafia, è ancora e di più la ciclopica montagna di merda contro la quale gridava Peppino. Appariscente, incombente, presentissima. Prima di tutto come fenomeno mentale. Concretamente, si tratta di un patriarcato estremamente degenere, ridotto a termini minimi e bestiali, in cui i patti di delega si stabiliscono emotivamente, quindi fuori dalla morale, sulla base ancestrale dell’onore.  Ma questo onore, costruito sulle fondamenta attorcigliate e irrazionali dei legami di sangue, del familismo, delle arcane intersezioni genealogiche,  in una specie di primitivo e saldo far corpo per sopravvivere, irrorato dalla persistente ignoranza e dai fiumi di denaro, complici della fatale degradazione di un  fatto storico dotato di radicate motivazioni ora scadute ( come la parola stessa, mafia, che, innocuamente, voleva dire altro ), ma alle quali si continua a ricorrere pretestuosamente, non grava sul delegato, come accade o dovrebbe accadere per il governo di uno stato democratico, obbligato ad onorare chi lo ha eletto, tenuto unicamente, dal canto suo, al rispetto delle leggi. Il mafioso, eletto da nessuno, rovescia questa incombenza sul protetto, strozzato da un circolo vizioso ineludibile, e che pone disumanamente in lotta coerenza e integrità, quest’ultima intaccata da quei compromessi umilianti e deprimenti nei quali predomina la paura, un particolare tipo di paura che è quella paralizzante dell’eterna gratitudine dovuta a un padre, dal quale, pertanto, non ci si libera mai, e che come Crono, divora i suoi figli senza pietà, per non essere detronizzato.  Ecco perché l’antistato, in che termini l’antitesi: le fondamenta sono emotive, amorali, prive di qualsiasi etica normativa. E’ l’opposto della politica, che per rabbiosa, polarizzata reazione trova in Sicilia le sue vette più luminose. La distorta idea virile mafiosa, innervata lungo tutta la sua storia, dalla quale il femminile è rigorosamente espulso ( le donne o accettano l’esclusione e la mansueta ignoranza o si tramutano in uomini di potenziata ferocia ) è una virilità falsa. Poggia su tutta una serie di rimozioni. Dato che la virilità non esiste, che questa forza è sostanzialmente fasulla,  tutta una batteria di aspetti formali, rituali ed esornativi è necessariamente convocata, come per le religioni e i regimi politici ( i rispettosi appellativi, la protocollare facciata cattolica, tutti i lati più tribali e grotteschi della deontologia mafiosa ).  Non è vero, infatti, che il mafioso o il killer di mafia, da un certo momento, varchino una soglia, come romanticamente favoleggiano certi film criminosi: psicologicamente, essi si murano vivi. Il corrispondente semiologico è il bunker, la tana, il covo. Negano parti di sé. Si tratta di casi da laboratorio, smaccati: grazie a queste rimozioni, può accadere la dissociazione da se stessi. Scompaiono i se stessi criminali e assassini sanguinari, e un’ esistenza abominevole può rimanere collocata su un piano psicologicamente sopportabile, dove i mafiosi sono generosi padri di famiglia, mariti amorevoli, filantropi. Non è pazzia, unica schietta manifestazione di vitalità, ma psicosi, schizofrenia. Ciò che è irreversibile è la condizione patologica. L’omertà non è che la piega pragmatica di questa originaria rimozione, che coinvolge le stesse popolazioni soggette al dominio mafioso, in una psiconevrosi su vasta scala, tristissima, agghiacciante, dalla quale, per adesione o rifiuto, nessun siciliano può fisicamente sottrarsi. La tecniche retoriche corrispondenti, persuasive e ricattatorie, sono l’allusione, la reticenza, la litote, il sofisma; eppoi il depistaggio moralistico, l’argomentum ad hominem, la squallida medicalizzazione degli oppositori, la diluizione del problema in una indiscriminata generalizzazione, l’untuosità che viene proprio dall’allusione, dalla reticenza. Grazie a questa retorica, di un automatismo sorprendente, strutturale, genetico, essi dicono tutto e non dicono niente. E’ il linguaggio dei padri, l’unico linguaggio che sanno captato dai figli a un livello profondo, determinante, e che li scagiona dalle colpe: la minaccia tacita e implicita di castrazione. Di qui la fobia della penna, loro vera ossessione: se infatti l’allusione verbale li pone al riparo della disfatta psicologica, permettendogli di guardarsi in uno specchio benevolmente deformante, sanno che una penna adoperata bene è obbligata, al contrario, alla più fredda, lucida, chirurgica chiarezza; è obbligata all’infrazione di ognuna di quelle rimozioni che li tiene riparati da loro stessi, costringendoli davanti ad uno specchio impietoso. La penna risponde unicamente alla propria libertà, smonta le loro difese, decostruisce agilmente, riconoscendola, ogni tecnica persuasiva. Quando perciò si parla di terapia culturale, si dice una cosa vera. Un vero deterrente non può agire sui sintomi. A patto che la stessa cultura non sia manomessa nella sua definizione, che non sia sottoposta ad un pianificato malinteso, come purtroppo avviene: l’affrancamento psicologico richiede una passionale cultura umanistica, vorace, realmente disinteressata, devota alla bellezza. Questa cultura è immutabile, avulsa da ogni implicazione. Non c’entra con lo sviluppo, con il denaro. Non c’entra con il mercato anche se ne fa parte. E’ incorruttibile.  Pertanto la vera eredità di Peppino è un’eredità poetica. Non è l’urlo, ma il passo di lato. Il cambio di prospettiva, l’eterodossia istintiva nella poesia. Il resto, già a quel tempo gravemente inquinato dalle molte forme di un  anticonformismo istituzionalizzato e idiota, si è dissolto in un vociante, narcisistico subbuglio  che vede le nuove leve di intellettuali borghesi crogiolarsi spocchiosamente nel barbarico tutto va bene sempre pronto a fare affidamento sulla categoria del postmoderno per giustificare sbrigativamente ogni aberrazione di una società sempre più disumana e predisposta, sul piano psicologico, all’ assoggettamento mafioso. Che rifiutano i classici. Che non leggono Dickens; e hanno dimenticato Kafka. Che trovano superfluo tutto ciò che non ha fine, ma necessario tutto ciò che è superfluo. Che rinnegano la vecchia cultura accusandola di presunzione, ma solo perché sono incapaci di sostenerne la fatica. Che sono prosaici quando gli fa comodo. Idealisti quando gli conviene. Perché non vogliono soffrire il dolore di un salto culturale. Perché non vogliono essere umili. Perché non hanno talento. Perché devono pur mangiare. Perché oggi i tempi sono cambiati. Perchè bisogna guardare avanti. Perché in fondo non va poi così male. Perché chi te lo fa fare. Dove la trovi la voglia. Te l’ha comandato il medico. In fondo qui stiamo bene, viviamo tranquilli, dormiamo benissimo.

Matteo Fulimeni

 

Per gentile concessione Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato.

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

2 Responses to “Generosi padri di famiglia.”

  1. gabriella scrive:

    ecco perchè la speranza è sempre stata riposta nei giovani
    e tu Matteo hai fatto la tua parte alla grande

  2. Schielefran scrive:

    già…”In fondo qui stiamo bene, viviamo tranquilli, dormiamo benissimo”:
    in trinacria conosciamo bene queste parole, è un sonno che tutti i siciliani con la voglia di cambiare pagano a caro prezzo!
    Complimenti per il “pezzo” e per le foto :)

    ps Matteo sei un grande esempio di giovane con talento… ti dico da anni che farai strada ;) non mi sbagliavo, in bocca al lupo a tutto il gruppo per la meravigliosa esperienzaaaa!!!

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